venerdì 16 luglio 2010

COBRA ultima puntata (di 6)

Siamo giunti all'ultima puntata di questo racconto che per ben sei settimane è apparso suo mio blog in sei rispettive mini-puntate. Ciò non vuol dire che nuovi eventuali lettori non possano tornare indietro e godersi pezzo per pezzo l'atroce avventura di Cobra e compagni. Buona lettura e... attenti alle telecamere!!!


Capitolo VI
Non aveva mai provato nulla di simile, non aveva mai sentito la sua esistenza tanto in bilico, mai si era sentito così vulnerabile, così vicino al fallimento. Camminando a testa bassa per le strade, scrutando l’asfalto dei marciapiede per concentrarsi meglio, Cobra pensò a come aveva potuto ridursi sul lastrico. Ragionò e concluse che le sue dissennate ricerche lo avevano portato a non considerarne le spese, ad allontanarsi dal reale per rifugiarsi nella fantasia di qualcosa che fosse suo fuori dal mondo che avrebbe dovuto conquistare. Un uomo senza denaro non può far altro che chiedere aiuto. Ma prima voleva tentare il tutto per tutto, compiere il gesto estremo, il gesto del non ritorno che gli avrebbe dato la forza di ottenere ciò per cui, altrimenti, qualsiasi uomo sarebbe stato troppo debole. Tornò a casa di Filtro ed ordinò che gli fosse fatto quel che a Filtro era stato fatto. Si accoppiò selvaggiamente con Sheena e, mentre giungeva all’orgasmo, prese a urlare spasmodicamente: -Ora!! Fallo ora!!-
L’uomo cui aveva tirato il collo gli rese il favore ed un attimo dopo il negro giaceva sul letto come un amante spossato dal troppo sesso.
-Ci devi dare la tua droga- gli dissero in coro i suoi seguaci non appena aprì gli occhi.
-Non ne ho più- rispose -ed è per dimostrarvi che se non ve ne do è solo perché non posso che mi sono messo nella vostra stessa condizione, contagiato dal veleno che io stesso ho creato, ed insieme a voi che non potrete più farne a meno, sarò pronto ad ogni azione. Siete pronti a seguirmi?-
Anche Cobra era umano. La sua umanità affiorava talvolta sottoforma di angosciati pensieri che riguardavano soprattutto la natura delle persone. Poteva turbarsi, ad esempio, nel reincontrare un vecchio conoscente, riconoscerne la faccia, ma sentirsi del tutto ignorante di quel che quella faccia celava, come se i volti fossero maschere prese in prestito dalla collezione di un costumista di film dell’orrore. Era forse per questo che la sua febbrile ricerca nel mondo delle erbe mirava al confezionamento di un farmaco in grado di far affiorare il lato selvaggio di chi lo avesse assunto? Era forse quel lato selvaggio l’immagine dell’uomo senza maschera? I dubbi gli rimasero appiccicati addosso anche dopo essersi infettato della sua stessa pozione. Ma un farmaco per passare alla storia deve creare dipendenza, ed è per questo che Cobra si stava recando dal suo spacciatore di materie prime. Doveva far presto, o l’astinenza lo avrebbe ammazzato prima che il suo nome potesse essere inciso al lato di quello del creatore dell’ LSD.
Cobra decise di cercare un suo vecchio compagno: Fulvio Marcio. Era l’uomo più mascherato che conoscesse. Nel 2039 aveva scritto un libro intitolato Riflessioni milanesi che gli aveva causato molti problemi. Non era stato incarcerato, torturato o deportato ma sì era stato diffamato, sfrattato e licenziato. Le voci ingiuriose che lo avevano portato al pubblico vilipendio gli erano piombate addosso da chissà dove, forse da molteplici fonti che avevano poi prodotto innumerevoli schizzi, ma certamente avevano origine in alto, anche se non si sa quanto in alto. Il suo era un libro composto da piccoli episodi esemplari o brevi riflessioni a sfondo sociale e aveva avuto una certa presa su un discreto pubblico. Cobra si avventurò angosciato per le scale del fatiscente palazzo senza portiere, nel marcescente quartiere di Lambrate, fino alla porta della casa di Fulvio Marcio, intellettuale orgogliosamente esiliatosi in un covo di battone maleodoranti e magrebini dall’indole violenta. Non si vedevano da anni, ma nessuno dei due era molto cambiato. Fulvio accolse la sua visita con sufficienza, e non c’era di che stupirsene. La loro amicizia si era rotta quando Fulvio aveva deciso di condurre la sua lotta personale con l’intelletto, con la teoria e le parole, mentre Cobra aveva scelto di diventare un stregone. Ora che era all’apice della sua carriera di farmacista woodoo, ora che era riuscito a mettere a punto un composto infettivo che trasformava i morti in belve affamate di carne cruda e di sesso, ora che si era convertito anche lui in animale, si ritrovava a dover fare i conti con il più artificiale dei bisogni: il bisogno di soldi. Se non avesse comprato al più presto le materie prime per confezionare il suo farmaco il suo corpo si sarebbe velocemente corrotto ed avrebbe visto i vermi proliferare nelle sue carni. Ma tutto ciò che Fulvio aveva da offrirgli era il penoso spettacolo di se stesso che cercava di tagliarsi le vene dei polsi con un coltello da cucina poco affilato.
Non appena lo vide Cobra capì che la sua ultima speranza di racimolare qualche soldo si stava suicidando e fece appello a tutto ciò che in lui era rimasto di umano per convincerlo a non togliersi la vita.
-Mi hanno tolto tutto!- si lamentava Fulvio Marcio –Se non posso più scrivere non c’è più un senso, non c’è più un senso, non c’è più…- e continuava come un disco inceppato. –Vuoi dei soldi?- disse a Cobra tra le lacrime –Li ho spesi tutti per comprarmi quel computer portatile- e fece cenno al pc che stava sul tavolo. –Non trovavo più carta per scrivere… capisci a cosa siamo giunti?? Non c’è più carta, devono aver abbattuto l’ultimo albero dell’Amazzonia! Poveri noi, poveri noi poveri noi… Così ho preso i miei risparmi a e ho comprato un computer. Per scrivere, capisci?? Per scivere. Se non che, ecco, mi metto a scrivere e mi si cancellano le frasi, o si modificano o vengono fuori degli strani avvisi “pensiero non autorizzato”. Ed ecco che capisco quel che avrei dovuto capire prima: l’intelligenza artificiale ha fatto passi da gigante negli ultimi anni, e sono riusciti ad installare in ogni computer un programma in grado di riconoscere le frasi sovversive e ad eliminarle o modificarle per rendere innocuo tutto ciò che viene scritto. E io cosa faccio adesso?? Cosa??-
Cobra riuscì a calmarlo dicendogli –guardami amico, guardami in faccia, sono messo peggio di te - e lo convinse a preparargli un caffè.
Mentre l’altro si trovava in cucina a preparare una grande moca, Cobra cercava di concentrarsi per mettere a buon frutto quelle che avrebbero potuto essere le sue ultime ore di vita. Guardava senza troppo interesse i libri ingialliti di quello studioso appassito ed il viscido serpente che sibilava nelle sue budella gli diceva di aspettare che il caffè gli fosse servito per poi ucciderlo e bersi una doppia razione. Il suo sguardo cadde però su una copia di Riflessioni milanesi che stava sul tavolo; il libro scritto da quello che era stato una volta simile a un amico pareva chiedergli di aprirlo e così, più per istinto che per curiosità, Cobra cominciò a leggere una pagina a caso, una delle tante riflessioni che a Fulvio erano sembrate a lor tempo importanti e che invece si erano disperse come fumo nell’aria. La riflessione che si ritrovò a leggere era:
IN TRENO SIAMO TUTTI UGUALI
Devo andare a xxx. Il mezzo migliore, mi pare, è il treno. Mi reco quindi alla Stazione Centrale di Milano, una stazione affollata e pregna di odori: sudore, merda di piccione, piscio umano, polvere datata divenuta ormai fossile, fumo… La cosa che odora di meno, qua dentro, è il cibo dei chioschi. Eppure credo di aver letto su un libro della prima metà del ‘900 una descrizione piuttosto suggestiva dell’aroma emanato da un piatto di fagioli ben conditi. Sul dizionario ho trovato anche parole come “fragranza” e “succulento”, ma credo che ormai possano essere ascritte all’albo degli arcaismi.
Quando salgo in carrozza il treno per xxx si sta affollando. Mi approprio di un posto a sedere, uno degli ultimi rimasti liberi, mentre il corridoio del vagone si popola di persone costrette a rimanere in piedi. Ecco che tra la gente si fa largo un bellimbusto assai distinto: scarpe lucide, pantaloni da negozio stile “vietato l’ingresso ai non abbienti”, giacca da stilista gay, borsa più costosa di tutti gli oggetti che riempiono la mia, gel per capelli che deve valere più di tutti i miei pasti della domenica dei miei ultimi dieci anni. Questo bellimbusto cerca di farsi largo per il corridoio, spinge, chiede permesso e si sorprende che non gli cedano il passo tanto facilmente. Quando giunge all’altezza del mio sedile s’imbatte in una piccola signora dalla pelle scura e raggrinzita dalle inclemenze di una vita passata ai piedi della scala sociale. Scorgo sorpresa sul suo volto, perché la signora non si scosta per lasciarlo passare. Chiede permesso e gli viene risposto che “non vede? è tutto pieno, dove vuole andare?” Zittito da una donna dall’accento straniero l’elegantone abbassa gli occhi al vecchio sudicio strafatto di whisky scadente che ha trovato posto lì accanto, e siede come un re sul suo trono; il suo bagaglio è un sacchetto della spesa strappato. Il bellimbusto stringe a sé la sua borsa elegante che chissà cosa contiene; dal volto triste di quest’uomo ben vestito e pettinato ricavo una riflessione: in treno siamo tutti uguali.
Quanti anni erano passati da quando Fulvio Marcio aveva scritto quelle cose? Tanti. Abbastanza da cambiare drasticamente la realtà che descriveva. Ora che le fonti di energia stavano esaurendosi le vecchie stazioni ferroviarie erano il covo di indigenti cenciosi e cani randagi. A soli duecento metri dalla casa di Fulvio Marcio, nella stazione di Lambrate, si aggiravano donne di malaffare per straccioni che si accoppiavano con chi non aveva altro da offrire se non gli ultimi residui di vita, donavano loro un ultimo brivido, si prendevano i loro ultimi schizzi di sperma rancido e li uccidevano al riparo di qualche vagone abbandonato, per cuocere le loro cosce su falò di spazzatura bruciata. A volte si vedevano le colonne di fumo di qualche vecchio treno che prendeva fuoco, dense e nere si alzavano in cielo, sullo sfondo gli aerei che ogni cinque minuti partivano dai diversi aeroporti bruciavano ad alta quota quelli che dovevano essere gli ultimi barili di carburante, che però sembravano non finire mai.
Una linea ferroviaria ancora in funzione, però, era rimasta. Era una linea di treni veloci e costosi, una linea di treni di lusso che collegava le principali città del paese. A Milano partivano due treni al giorno, dalla Stazione Centrale, l’unica ancora tirata a lustro, più limpida e profumata di quando era stata costruita, quella stessa stazione in cui Fulvio Marcio aveva preso il treno all’epoca delle sue Riflessioni milanesi, quella stazione che l’intellettuale fallito aveva visto come simbolo della democrazia e dell’uguaglianza ora era un luogo d’elite, dove per comprare un biglietto bisognava essere ricchi sfondati. L’alternativa, per la gente comune, erano gli aerei sovraffollati delle grandi compagnie, o le proprie gambe.
Nella Stazione Centrale tutto era sterilizzato e disinfettato, le sfumature di grigio dei marmi facevano da contrappunto con i grandi schermi pubblicitari colorati e con le vistose vetrine, decine di persone che avevano scelto la strada del consumo e del benessere ai danni di milioni di straccioni camminavano come sotto ipnosi verso i binari. Chi era più morto? Quelli che là fuori si consumavano trascinandosi in una vita di fame, malattia ed alcolismo o questi ricchi lobotomizzati dai messaggi promozionali e dai marchi delle industrie di vestiti di lusso? Le telecamere di sicurezza colsero Cobra mentre era impegnato in tali ragionamenti. Il suo aspetto infetto aveva dato nell’occhio in mezzo a tanta igiene, il suo incedere storto era troppo diverso dal passo di quelli che camminavano instupiditi con lo sguardo incollato agli schermi e i cervelli in un cortocircuito di messaggi subliminari come “compra la nostra nuova fragranza alla violetta, gli uomini profumati non fanno i cattivi”. Una guardia gli sbarrò il passo e gli chiese dove vai negro, ma poco dopo la stessa guardia aveva un morso sul collo e uno zampillo di sangue risaltava molto bene sul marmo del pavimento. Cobra fu abbattuto dai manganelli elettrici. Come un animale.
Quasi subito anche Sheena era entrata in stazione e forse solo grazie al trambusto causato da Cobra era riuscita a prendere posto in un vagone. Si era seduta mettendo in mostra le sue cosce colorite lasciate scoperte dalla gonna minuscola e strappata, ma nessuno l’aveva vista; sopra ogni sedile c’era uno schermo che mandava sempre le stesse tre pubblicità per tutta la durata del viaggio, per due ore, per tre ore, per sei, e una volta arrivato a destinazione la prima cosa che avresti cercato sarebbe stato il nuovo profumo alla mimosa le donne profumate scopano meglio o le nuove mutande di Dolce&Compare agli uomini che le indossano si ingigantisce il pacco. Così l’unico che notò quella pantera scollata fu il controllore che le chiese “biglietto signora” e lei allungò la mano per dare al controllore un biglietto che non aveva mentre il controllore le porse la sua per prendere un biglietto che non esisteva, e ci rimise due dita. Sheena masticò le sue falangi come fossero patatine fritte mentre gli uomini della sicurezza piombavano nel vagone inorriditi. Dovettero spararle una ventina di volte per fermarla. Anche un passeggero ci rimise cranio e cervello, due schermi pubblicitari andarono in frantumi.
Filtro si mantenne fedele al suo stile: si avvicinò ad un uomo in tenuta business che, in un angolo dell’atrio della stazione, fissava la pubblicità di una nota marca di sigarette. -Hey amico- gli chiese
–Non è che hai una paglia?- Questi lo guardò con sguardo vuoto e gli porse, con un gesto lento e svogliato, una sigaretta.
-Hey- protestò Filtro –Che cazzo è ‘sta merda? È di plastica-
-È una sigaretta elettrica- fece il businessman apatico –È proibito fumare tabacco nell’atrio. Le sigarette elettriche, invece, si fumano ovunque e questa è carica di supernicotina, quando tiri si accende la lucina sull’estremità, come se stessi fumando sul serio.-
-Puoi tenertela la tua schifezza elettrica, ne voglio una vera, capito?- urlò Filtro alterato, e mentre strillava estrasse una lama lunga una spanna e mezza. Il suo volto si fece più bestiale di quanto già non fosse, abbastanza minaccioso da scuotere il signor business dalla sua indifferenza. –Le hai o non le hai le sigarette vere?- chiese avvicinandogli il coltello al collo
- L-le ho – fece l’altro spaventato, e con mano tremante gli si frugò nelle tasche. Filtro si prese l’intero pacchetto, ringraziò e lo stese con una testata. Si accese una sigaretta, una vera, e diede un tiro profondo, chiudendo gli occhi per gustarselo di più. Non vide arrivare i poliziotti, né la grandinata di manganellate che si abbatté su di lui. Mentre lo trascinavano via, Filtro teneva ancora in mano la sigaretta accesa, e sorrideva.
Nel frattempo Aldo Paoli faceva ancora una volta il suo ingresso nell’ufficio del direttore dell’aeroporto 7. Era esattamente come lo aveva lasciato: gli stessi quadri che stavolta gli sembrarono orrendi, lo stesso odore, che stavolta gli sembrò più forte: odore di soldi, di ricchezza, di sigaro. Un odore eccitante. Aldo Paoli si sedette prima che il direttore lo invitasse a farlo.
-Signor Paoli. Ci siamo visti solo quattro giorni fa, perché lei aveva dato cenni di comportamento anomalo. Ora, lei ha accumulato quattro giorni di assenza ingiustificata dal luogo di lavoro, omissione punibile per legge con tre mesi di carcere per ogni assenza più l’aggravante che consiste nel fatto che il suo era un lavoro di alta responsabilità, il che significa raddoppio della pena. Certo, se lei si fosse presentato nel mio ufficio vestito decentemente, con una buona giustificazione, pronto a scusarsi e mostrandosi abbastanza lucido per riprendere il suo lavoro, io avrei potuto essere clemente… ma cosa dovrei dire, invece? Si guardi; ha un aspetto improponibile, signor Paoli, impr…-
Aldo Paoli emise un ruggito, e saltò dall’altra parte della scrivania. Afferrò il direttore per la giacca verde e mentre lo strozzava con la sua stessa cravatta blu gli si ingrossavano le narici riempiendosi dell’odore del gel per capelli della sua vittima che spirava con un’espressione sbigottita dipinta in volto. Poi si sedette al posto del direttore, cominciò ad esplorare gli oggetti di lusso sparsi sulla scrivania. Pochi essenziali oggetti di lusso, e tra questi una scatoletta di legno. Quando vennero ad arrestarlo lo trovarono come in estasi, mentre ne odorava il contenuto: odore di soldi, di ricchezza, di sigaro. Alle sue spalle gli orrendi quadri erano stati rimossi dalle pareti; al loro posto Aldo Paoli aveva messo il direttore, appeso per la giacca, coi chiodi.
Nella saletta di controllo il sostituto di Aldo Paoli sorseggiava un energy drink e fissava nervosamente i monitor. Un uomo seduto nell’area d’imbarco attirò la sua attenzione: aveva il volto rovinato da qualche tipo di malattia e si guardava intorno come un animale che si sente braccato. D’un tratto Charles Logan si voltò verso la telecamera di sicurezza, e mostrò dito medio. Se l’uomo al di là del monitor avesse saputo leggere il labiale avrebbe inteso che nel far quel gesto Logan sussurrava:
non c’è più un luogo in cui fuggire…


FINE!!



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