sabato 8 gennaio 2011
L'abito fa il monaco (parte 4 - ultima)
Ci incamminammo verso la frazione più alta della mia cittadina. Fra Jeffrey non smetteva di bere e di tanto in tanto si ricordava di offrire un sorso anche a me. Mentre procedevamo in salita lungo le strade semideserte Fra Jeffrey prese a raccontarmi la storia del suo monastero. I fondori di quel remoto avamposto della fede erano i discepoli di quel San Jeffrey dal quale il mio frate prendeva il nome. Questo santo, prima di essere santo, aveva sfidato l'autorità di un sovrano tanto potente quanto iniquo. Era stato gettato per punizione nelle fogne e condannato a passare il resto della sua esistenza nel buio e nel fetore delle cloache. Ma Dio, vedendo che Jeffrey aveva la stoffa del santo, trasformò lui e i suoi compagni di prigionia in angeli: volarono fuori dalle fogne come un esercito alato, una schiera di guerrieri divini benedetti dal Signore. Davanti al loro celeste fulgore i servi e le guardie del crudele sovrano non poterono più nascondere la loro vera natura ed apparvero per la prima volta sotto le loro vere sembianze: quelle di orrendi demoni. Jeffrey guidò il suo esercito all'attacco e insieme trucidarono i protettori del diabolico oppressore. Solo il sovrano rimase in vita e quando le fulgide spade degli angeli stavano per abbattersi su di lui Jeffrey compì il miracolo: d'un tratto il sovrano perse l'atteggiamento di terribile drago per assumere quello di un pavido agnello. Facile, direte, mostrarsi mansueti per fuggire alla lama! Ma qui sta il vero miracolo, il miracolo che fece di Jeffrey un santo: il crudele sovrano si convertì davvero alla fede cristiana, la sua sottomissione ai vicari di Dio fu autentica, il suo pentimento sincero. Davanti alla figura prostrata di colui che era stato un terribile demonio le ali degli angeli avvizzirono e caddero come foglie secche. Assolta la loro missione quelli che erano stati strumento della vendetta di Dio tornarono ad essere comuni mortali. Tutti tranne uno. Jeffrey rimase un angelo in terra, ma non essendo ancora asceso al cielo, nonostante i suoi grandi poteri, la sua vita terrena era destinata a finire: ciò avvenne molti anni più tardi, quando Satana tornò a minacciare gli uomini. Il demonio si era insinuato nel corpo di un giovane fanciullo e Jeffrey lottò per scacciarlo. Ci riuscì, per fortuna, ma lo sforzo lo logorò talmente che il soffio vitale gli morì sulle labbra ed il suo cuore si fermò per sempre. Il fanciullo che era stato salvato dall'insidia del Diavolo, insieme al parroco della sua comunità, fondò in suo onore il monastero in cui il mio frate viveva. Il racconto di Fra Jeffrey era stato così appassionante che quando ebbe terminato mi stupii di quanta strada avessimo percorso. Ci eravamo ormai allontanati anche dalle ultime case del paese, quelle rustiche abitazioni di pietra che sorgevano al limitare dei boschi, e ormai camminavamo lungo un sentiero che facendosi largo tra gli alberi serpeggiava sempre più impervio su per la montagna. Alla nostra destra le alture formavano una profonda valle a V e davanti a noi si estendevano distese di chiome che l'autunno aveva colorato con pennellate rosse e dorate. In montagna si cammina spesso a testa bassa, per paura di essere traditi dalle insidie dei sentieri sconnessi e sassosi. Così capita spesso che il viandante, alzando la testa, si stupisca del paesaggio che lo circonda. Fu quel che capitò a me quando mi riebbi dal racconto che aveva a lungo assorbito la mia attenzione. Mi sembrò di aver ascoltato il frate per delle ore, e istintivamente mi voltai a controllare quanta strada avessimo percorso: il paese mi apparve piccolo e lontano; potevo a malapena distinguere la chiesa. Il monastero di Orlok sorgeva in fondo ad una stretta valletta. In realtà si trattava di una specie di villaggio. Nel monastero vero e proprio vivevano solo quattro frati, mentre gli altri avevano le loro stanze nelle casette di pietra che sorgevano sull'una e sull'altra sponda del torrente che attraversava la valletta. Io ne contai cinque. Il torrente si attraversava grazie ad uno spartano ponticello di legno, vicino al quale stava il pozzo. Il monastero vero e proprio era costituito da un chiostro quadrato: su di un lato stava il portale d'ingresso, di fronte a questo vi era la chiesa, sulla destra le stanze dei frati e a sinistra un grosso stanzone che serviva da mensa comune. Fui condotto quasi subito in quest'ultimo ambiente, in quanto si avvicinava l'ora di cena. La mensa era rustica come tutto il resto: le pareti erano disadorne tranne che per la presenza di una grossa croce di legno il cui trave orizzontale poggiava su due grandi chiodi arrugginiti che sporgevano dal muro. Al centro della sala vi era una sola tavola ovale, ed io fui invitato a prendervi posto mentre uno dopo l'altro apparivano i frati e la sala si animava di voci, chiacchiere e saluti reciproci. Un frate particolarmente corpulento fece il suo ingresso reggendo un enorme pentolone fumante che pose pesantemente sul tavolo. Fra Jeffrey si mise in piedi ad un vertice dell'ovale e gli altri, sistemandosi intorno alla tavola, fecero silenzio. -Oggi, cari fratelli, ho invitato un amico alla nostra mensa- disse -Si chiama Gabriele e viene da uno dei paesi che sorgono alle pendici delle nostre montagne. Gabriele capita in una data assai particolare perché proprio stanotte ci sarà un'eclissi totale di luna. Coloro che vivono nei grandi centri abitati hanno da tempo perso l'uso dell'osservazione degli astri ed anzi alzano a malapena il naso in contemplazione di un cielo stellato e se interrogati non sapranno dire se la notte successiva ci sarà luna piena, crescente o calante! Ma non chiamava forse San Francesco la Luna sorella? Noi ci siamo rifugiati in un luogo in cui le luci delle città non contaminano il firmamento, e dove le tentazioni della viata mondana non trovano terreno fertile. Seguendo dunque riti altrove dimenticati stanotte usciremo all'aperto armati di mestoli, cucchiai, tegami e pentolacce per far più baccano possibile. Riteniamo infatti che quando la Luna si eclissa enormi demoni volanti insidiano l'astro a noi caro che San Francesco chiamava sorella. Tali demoni, se non vengono prontamente scacciati, potrebbero mangiarsi interi pezzi di luna. Per questo occorre fare più rumore possibile per spaventarli. Ma ora dividiamo equamente la polenta ed il vino, come il nostro signore Gesù ci ha insegnato- -Amen- risposero i frati in coro e subito la mensa fu tutta un muoversi di mestolate di polenta e un versar generose razioni di vino, e un riepir piatti e bicchieri di legno. Lo stupore che mi aveva pervaso nell'apprendere le singolari usanze di questi strani frati si tramutò, brindisi dopo brindisi, in euforia. -Salute!- esclamava quello alla mia destra -Alla Luna!- gli faceva eco un altro alla mia sinistra -All'inferno!- fece un altro dall'altra parte del tavolo. -Come?- chesi io non credendo ai miei orecchi. I frati scoppiarono in una fragorosa ed ebbra risata. -Inferno è il nome del nostro vino- mi spiegò uno -Da tempi immemorabili gli abitanti delle montagne lo chiamano così per via della difficoltà del coltivare e raccogliere l'uva in questi aspri luoghi.- -Ah...- dissi io -Allora... all'inferno!- proclamai, e nel farlo mi sorpresi a sorridere; un sorriso spontaneo come non ne ricordavo altri.
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